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«Gli condussero una donna… per metterlo alla prova» (Gv 8,1-11)

 

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Gli “scribi e i farisei” di ogni tempo e di ogni fede si radunano contro la Verità per tenderLe un tranello, una trappola in cui saranno essi stessi a cadere.

Forza e debolezza della parola parlata, forza e debolezza di una Parola scritta sul lastricato di pietra del tempio.

Da «donna» a «Donna». Colei che veniva posta “nel mezzo” per poter essere ancora una volta abusata, nella sua dignità, nella sua nudità di peccatrice “scoperta”, rimane sola, “nel mezzo”; sola con la sua verità, la verità di se stessa e di tutti i peccatori, di ogni tempo e di ogni fede, la verità della Misericordia che si riceve, della vita nuova che si inaugura silenziosa, umile, senza trionfalismi, senza il clamore… non quello delle pietre scagliate, non quello del linciaggio, non quello meccanico e freddo dell’iniezione letale: il silenzio di una vita che nasce. Di nuovo.

«Donna» è il tuo nome …da oggetto a soggetto… nessuno ti condanna? Nessuno! Non il serpente ingannatore, non l’angelo di fuoco, non il giudizio della legge, non gli anziani, non più gli aguzzini di Susanna, non i più giovani, non il Figlio di Dio. No: tuo figlio, o Donna, al posto tuo, al posto mio, è lui che si lascia accusare, si lascia condannare.

Donna, non più senza nome, il tuo nome è Donna; perché dalla morte di tuo Figlio, sei nata di nuovo! Che tu sii benedetta, o Donna: in te, io rivedo me stesso… e posso sperare!

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Anche quest’anno si rinnova l’appuntamento con le settimane estive di spiritualità presso Casa Sancta Maria, la sede venosina della Comunità degli Eremiti di Cerreto.

 

Ecco la locandina ufficiale:

Settimane estive 2011 - Eremiti di Cerreto

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Con un grazie tondo tondo a Carmine, pubblico qui questa sua omelia, pronunciata a Huopalahti, Helsinki, il 23 gennaio scorso. Con la preghiera a Dio di togliere l’ostacolo della divisione tra le Chiese perché la testimonianza di Cristo risplenda luminosa in un mondo che attende.

«Uniti nell’insegnamento degli apostoli,

nella comunione,

nello spezzare il pane e nella preghiera»

(cf. At 2,42-47)

 

 

Evangelo: Mt 5,21-26
[testo italiano tratto da: La Bibbia. Parola del Signore. Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente, Roma-Torino 1986]
5,21 «Sapete che nella Bibbia è stato detto ai nostri padri: Non uccidere. Chi ucciderà sarà portato davanti al giudice. 22 Ma io vi dico: anche se uno va in collera contro suo fratello sarà portato davanti al giudice. E chi dice a suo fratello: – Sei un cretino!, sarà portato di fronte al tribunale superiore. Chi gli dice: -Traditore!, sarà condannato al fuoco dell’inferno. 23 Perciò, se stai portando la tua offerta all’altare di Dio e ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, 24 lascia lì l’offerta davanti all’altare e vai a far pace con tuo fratello; poi torna e presenta la tua offerta. 25 Così, se stai andando con il tuo avversario in tribunale, fa’ presto a metterti d’accordo con lui, perché può consegnarti alle guardie per farti mettere in prigione. 26 Ti assicuro che non uscirai di là, fino a quando non avrai pagato anche l’ultimo centesimo».

A volte, nelle Scritture, incontriamo parole ed espressioni che hanno bisogno di essere tradotte in termini a noi più vicini per poter essere comprese e vissute da noi, uomini e donne del XXI secolo; altre volte, la forza con cui quelle stesse parole sono capaci di scuotere e far capire ciò che Dio dice alla sua unica Chiesa e all’umanità intera è così grande, da non richiedere esegeti profondi o teologi raffinati per poter diventare comprensibili; esse si impongono con la loro semplicità, la loro immediatezza, facendo diventare ancor più sconcertante la chiusura con cui ci siamo messi davanti alla Parola di Dio, più bruciante la ferita che ha segnato i nostri fratelli e sorelle che attendono che questa Parola si faccia carne nella nostra vita.

Il brano che fa da tema centrale per questa Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, così come il brano evangelico che abbiamo appena ascoltato, appartengono a questo secondo gruppo di testi, carico di quelle parole che con la loro semplicità mettono già ora a giudizio ciascuno e ciascuna di noi; ma il giudizio di Dio, pronunciato una volta per tutte in Cristo crocifisso e risorto per noi, non ci fa bruciare nella nostra freddezza, non ci getta nella paura per la nostra fragilità, non ci lascia indifferenti con le nostre pretese, ma ci apre e ci libera per farci scoprire con occhi nuovi ciò che non sappiamo più vedere, ciò che non speriamo più di poter fare.

Mi piace pensare, ora, a come il Signore stia guardando alle tante Chiese e comunità cristiane che in questi giorni si riuniscono insieme – in questo tempo che qualcuno ha definito di “gelo ecumenico” -, spesso scoraggiate di fronte alle tante sconfitte che un secolo intero di preghiera comune, di dialoghi teologici, di impegno solidale hanno mostrato riguardo alla racconto ideale della vita della comunità cristiana di Gerusalemme, di quella Chiesa indivisa anche visibilmente, che rendeva così credibile il Vangelo da far trasformare lo stupore di tanti in fede, l’odio di molti in motivo di conversione del cuore e della storia. Immagino che lo sguardo di Dio, che si rivela negli occhi luminosi del suo Figlio prediletto, Gesù il Cristo, ci attende ancora dietro quella mensa, dove noi non sappiamo ancora sedere insieme riconciliati, da cui non sappiamo ancora ripartire insieme, finalmente trasformati nel nostro modo di conoscere l’altro per quello che è, di chiamarlo per nome, di amarlo.

Credo che questa mia immaginazione corrisponda alla realtà di quello che, ora, Dio compie nel mondo, dove la violenza sistematica e totale che rende questa nostra Terra un inferno è disarmata non solo da quel “piccolo resto” di uomini e di donne che costruiscono la pace nella giustizia, ma dal Signore stesso, che continua a donarci sempre la certezza che Egli è con noi, più forte di ogni odio, in nome del suo Amore che si fa cibo condiviso sulle nostre mense, che, anche se ancora divise, Egli riempie oltre ogni misura. Credo, inoltre, che anche nelle nostre realtà quotidiane, dove la tentazione del giudizio e dell’autosufficienza rende le nostre Chiese ancora infedeli alla sua Parola, Dio si fa vicino perché, incontrandolo anche da soli, impariamo ad avvicinarci gli uni agli altri, finalmente liberati dalla paura di vivere insieme, finalmente capaci di offrire noi stessi per la vita degli altri.

Allora possiamo già dire che questa offerta di lode, in cui ci ritroviamo ancora peccatori, ma che ci fa riscoprire amati da Dio e capaci di amarci tra noi, ci donerà la gioia di essere adesso una sola Chiesa e ci darà la forza di costruire ogni giorno una nuova umanità. Così, la parola di Dio che abbiamo celebrato insieme non sarà la fotografia sbiadita di una storia passata, ma il mosaico colorato che ci mostra il volto di Cristo, costruito con le nostre tessere così diverse, ma così necessarie a Lui. Amen!

Carmine Miccoli, prete

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Grotta di Sant'Antonio, in Egitto

Il monaco è colui che cerca davvero Dio. Il monaco può quindi esser visto come la quintessenza dell’uomo alla ricerca di Dio. Il monaco non è colui che ha già trovato Dio: è un uomo che lo cerca per tutta la vita. Il monaco cerca Dio perché Dio lo ha cercato per primo. Nel Prologo, Benedetto descrive Dio come Colui che nella folla va cercando il suo operaio. Lo chiama: «C’è qualcuno che desidera la vita e brama lunghi giorni per gustare il bene?» (Sal 34,13). Cercare Dio per Benedetto significa cercare la vera vita, non accontentarsi di vivere superficialmente ma voler assaporare la vita a fondo. Chi cerca Dio anela a trovare in lui la vera vita, a sperimentare in lui una nuova qualità di vita, anzi: una nuova identità.

Dio stesso ci cerca. Ci corre appresso. Il nostro compito non è cercare segni e miracoli, ma Dio stesso o il regno di Dio. Dobbiamo andare alla ricerca del Dio che in Gesù Cristo è andato alla ricerca dell’uomo. Gli uomini si erano smarriti, si erano allontanati dalla loro essenza più profonda. Gesù cerca la pecora smarrita, il figlio perduto, per riportarli nella casa del Padre, là dove possano sentirsi davvero “a casa”. E a coloro che cercano Dio, Gesù mostra che il regno di Dio è già in loro, che in loro è già presente un nucleo divino, che essi sono in Dio e solo in Dio rinvengono la loro vera essenza.

Sognai
di essere, dai tempi dei tempi,
in ricerca.
Alla ricerca di un cristallo.
Ecco: mi calo nei meandri di una caverna,
a fatica mi arrampico in cima a una vetta,
esploro i fondali marini,
solco i cieli.
Di luogo in luogo
incalza la mia caccia,
giorno dopo giorno.
Straziata dal mio desiderio,
straziata dalle mie esperienze,
straziata dalla mia ricerca.
Sinché, stremata, cado a terra…

Crisi – salto creativo.
La terra mi accoglie,
il vento rinfresca il mio corpo madido,
l’erba mi accarezza dolcemente,
inspiro l’aroma dell’erba falciata di fresco
e scorgo un fiore di campo,
nella leggerezza del suo essere.
E quello mi guarda, e sorride.

Allora odo un bisbiglio,
in me, una voce:
Che vai cercando qua e là?
Non lo scordare mai:
il cristallo è in te.

E mi destai.

Cercare Dio significa anche lasciarsi incessantemente mettere in questione da lui. Noi non possiamo cercare Dio come si cerca una cosa che si può possedere, e non chiediamo di lui come di un oggetto di cui da ultimo sia possibile sapere tutto. Ma dovremmo cercare Dio, chiedere di lui, come esseri umani a cui Dio chiede sempre se siamo davvero tali, chi siamo veramente, e se ciò che facciamo ha davvero senso. La ricerca di Dio esige anche una ricerca di umanità autentica. E ciò significa non appagarsi mai di ciò che abbiamo raggiunto. Il viaggio alla ricerca di Dio non ha mai fine. Non possiamo mai fermarci e riposarci. Dio ci mette in questione, ci interroga incessantemente. Come chiese ad Adamo, così chiede a noi: «Adamo, dove sei?» (Gn 3,9) Dove sei? Sei veramente là dove sembri essere? O con i tuoi pensieri e i tuoi desideri sei altrove? Ti lasci trovare da me, o mi stai sfuggendo? Ti nascondi, come Adamo, perché vorresti sfuggirmi? Cercare Dio è un’impresa che può compiere solo colui che si confronta con la propria verità e acconsente che Dio lo induca a confrontarsi incessantemente con se stesso.
La parola tedesca “cercare”, suchen, deriva dal linguaggio venatorio. Un cane da caccia va in cerca della traccia che ha fiutato, che “sente”. La traccia è l’impronta di un animale. Il cane da caccia segue la traccia che ha percepito sinché non cattura la preda. Sin dai tempi antichi, i Padri del monachesimo si sono avvalsi di questa immagine per descrivere la loro ricerca di Dio. Il monaco è come un cane da caccia che ha nelle nari la traccia della lepre. «Il monaco deve osservare i cani quando cacciano la lepre. Come, cioè, solo quello che ha scorto la lepre la segue, mentre gli altri gli corrono appresso perché lo vedono correre via, ma soltanto sinché non si stancano; poi repentinamente tornano sui loro passi, e solo il primo, che ha scorto realmente la lepre, continua a inseguirla sinché non l’ha presa. E come quel cane non si lascia distogliere dalla corsa perché gli altri vi hanno rinunciato, né da precipizi, da selve o da macchie, e neppure alle spine che lo graffiano, e dalle ferite, sinché non cattura la lepre, così anche il monaco, che cerca Cristo Signore, deve incessantemente tener fisso lo sguardo alla croce e ignorare tutte le contrarietà che incontra, sinché non giunga al Crocifisso» (Apoftegma 1148). Il monaco è colui che ha nelle narici la traccia di Dio. La sua ricerca di Dio non è sempre una passeggiata: lo conduce tra spine ed abissi, sul cammino verrà ripetutamente ferito, più volte avrà l’impressione di star correndo invano. Ma non può rinunciare: deve seguire la traccia che sente nelle narici, sinché non trovi veramente Dio.

Dio, io ti cerco
per strade e piazze,
nei vicoli, nelle case.
Di luogo in luogo ti do la caccia.
Si dice che tu troneggi nell’alto,
e io ti inseguo con pensieri che assediano i cieli.
Si dice che tu domini anche gli inferi,
e io nell’abisso delle mie angosce ti do la caccia.
Solo in chiesa ti si troverebbe,
dicono altri,
e tra le fredde pietre del Duomo ti inseguo, allora.
In ginocchio sui banchi di legno
con ansia ti attendo
dinanzi alla porta serrata del Tabernacolo,
nel bagliore rossastro della lampada,
promessa della tua presenza.
Come potrai udirmi,
dietro le massicce porte di metallo?
Come potrai, tu, venire a me?
Io non ho chiavi,
per farti uscire, per farti entrare
in questo nostro mondo.
EGLI è il Verbo,
mi grida una voce,
e solo là, nella Parola, LO troverai.
Nella Parola che sazia la mia fame.
Ti do la caccia, allora, nella mia stanza,
ed è lei a trovarmi, la PAROLA:
Il regno di Dio è dentro di noi!
Ecco: ho trovato.
E tuttavia prosegue la ricerca
delle radici del mio essere.

In una predica, Bernardo di Chiaravalle spiega ai suoi monaci che essi cercano Dio solo perché Dio li ha cercati per primo. Nel suo amore, Dio è andato in cerca dell’uomo. Lo ha visitato nella notte. Ha instillato nel suo inconscio uno struggente desiderio di lui. Gli si è dato a conoscere in sogno, perché l’uomo, destatosi, lo cerchi anche di giorno. Così Bernardo interpreta il versetto del Cantico dei Cantici: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amato del mio cuore» (3,1-2). La ragione della nostra ricerca di Dio risiede nel fatto che Dio, nel suo amore, ci ha cercati e toccati per primo, ha instillato nelle nostre narici la traccia del suo amore. E ora noi non possiamo fare a meno di alzarci e andare in cerca dell’amato del nostro cuore. In fondo, è per questo che la nostra ricerca di Dio è una storia d’amore. Il nostro insopprimibile desiderio dell’amore di Dio non finirà che con la morte, quando l’avremo finalmente trovato. Qui sulla terra possiamo solo destarci dal sonno e alzarci per metterci alla sua ricerca. Questa ricerca è insita nell’essenza stessa della nostra natura umana. Se rinunciamo alla ricerca di Dio, ci accontentiamo di cose da nulla, come faceva il “figlio perduto” della parabola (cfr. Lc 15,11-32). Allora plachiamo la nostra fame con delle “carrube” destinate ai porci. Solo nella misura in cui cerchiamo Dio, la nostra anima resta viva e vitale.

Se i monaci sono secondo san Benedetto i cercatori di Dio, allora il loro compito, nella loro incessante ricerca del Dio totalmente Altro, è mantenere viva nella nostra società odierna la domanda su Dio. Vita spirituale non significa conformarsi allo spirito del tempo, fare ciò che tutti fanno. Solo chi con la propria stessa vita salvaguarda la domanda su Dio può aiutare coloro per i quali l’orizzonte si è offuscato o ristretto. Purtroppo, negli ultimi anni la Chiesa si è occupata di molti temi secondari, trascurando la domanda su Dio, la ricerca di Dio. Ma soltanto scoprendo nella Chiesa un’autentica ricerca di Dio, gli uomini si lasceranno di nuovo appellare dalla Chiesa.

(Anselm Grün, Apri i tuoi sensi a Dio, San Paolo, Roma)

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19 « C’era un ricco che vestiva di porpora di bisso e banchettava ogni giorno lautamente 20 e c’era un mendicante di nome Lazzaro, che giaceva davanti alla sua porta, pieno di piaghe, 21 e bramoso di saziarsi delle briciole che cadevano dalla mensa del ricco, e perfino i cani venivano a lui e gli leccavano le piaghe. 22 E avvenne che il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo; morì pure il ricco e fu sepolto. 23Or stando nell’inferno tra i tormenti, alzò gli occhi vide da lontano Abramo e Lazzaro nel suo seno. 24 Ed esclamando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me, manda Lazzaro a intingere la punta del suo dito nell’acqua per rinfrescare la mia lingua perché sono torturato da questa fiamma. 25 E Abramo rispose: Figlio ricordati che hai ricevuto i tuoi beni nella tua vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora costui è consolato, tu invece tormentato. 26 E oltre a tutto questo, tra voi e noi è posta una grande voragine, cosicché quelli che da qui vorrebbero passare a voi non possono, né di costì si può attraversare sino a noi. 27 E il ricco disse: Ti prego allora, padre, di inviarlo nella casa di mio padre, 28 perché ho cinque fratelli, acciocché attesti loro di queste cose e non vengano anch’essi in questo luogo di tormenti. 29 E Abramo disse: Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro. 30 Ed egli disse: No, padre Abramo, ma se uno dei morti si recherà da loro si convertiranno. 31 Ed egli rispose: Se non ascoltano Mosè e i profeti, non crederanno nemmeno se risusciterà uno dai morti ».

Il brano ritorna sul tema della ricchezza e della povertà (cfr. vv. 1-9), incarnato questa volta da due particolari protagonisti: l’epulone e Lazzaro, espressione vivente di due classi sociali e religiose contrapposte.

Il ricco è messo in cattiva luce fin dalla sua prima presentazione. Non è ricordato neppure il nome. Verosimilmente, l’evangelista vuol far convergere l’attenzione più sull’intera categoria che su una persona. Non manca forse neanche una punta di polemica. L’uomo che portava forse un nome gentilizio a cui era senz’altro attaccato è diventato un anonimo. Sono descritte le sue abitudini, il suo sfarzo principesco (la porpora appartiene al guardaroba regale). Sembra che l’unica preoccupazione del ricco sia stata quella di vestire lussuosamente e di trascorrere le sue giornate in festini (v. 19). Era la vita e l’occupazione abituale dei signori e dei nobili di una volta (cfr. Lc 12,19; 15,23). Il parabolista non è dalla sua parte; osserva il suo personaggio da lontano, senza entusiasmo, piuttosto con una ancora malcelata indignazione. Ferma la sua attenzione all’esterno e sottolinea la povertà, il vuoto che regna dentro.

La presentazione di Lazzaro è fatta invece con amore e passione. Egli è un pezzente, ma merita di esser chiamato per nome. La sua situazione di indigenza è estrema, in contrasto col lusso del ricco: questi è in un palazzo, sdraiato su divani, Lazzaro disteso su qualche lurida stuoia fuori la porta. Il ricco passa il tempo in banchetti e feste, il povero si nutre appena di briciole, in pratica dei miseri avanzi che provengono dalla mensa del signore. Neanche i cani sembrano risparmiargli le loro ruvide carezze sulle piaghe. In fondo è un malato e abbandonato, che nessuno si preoccupa di soccorrere, soprattutto coloro che stanno bene e potrebbero in un istante cambiare la sua sorte. Le preoccupazioni a all’evangelista sono, innanzitutto, religiose, ma non appaiono disgiunte da implicazioni sociali. Anzi esse sono tra di loro strettamente connesse; la condanna del ricco proviene simultaneamente dalle sue inadempienze verso Dio e verso i propri simili.

Dietro i due tipi di persone si nascondono le due categorie che contraddistinguono la società del tempo: una minoranza di abbienti di fronte alla gran moltitudine dei poveri. Da una parte i nobili, i proprietari terrieri, i commercianti, i «contabili» o professionisti, gli artigiani e dall’altra i servi, gli schiavi. Lazzaro è uno di questi ultimi. Gesù e l’evangelista si ritrovano schierati con loro, condividono la loro sorte. L’intera Chiesa è fatta di uomini di tale «rango» (la «Chiesa dei poveri»). L’intento dell’evangelista è ricordare che nella storia c’è stato almeno qualcuno che ha preso le difese di Lazzaro e della sua classe e che si preoccupa di spingere gli uomini, soprattutto i credenti, a rendersi consapevoli delle situazioni inique, assurde in cui i più vivono a motivo dello strapotere dei pochi.

Le scene si susseguono nel racconto parabolico come in un film. La situazione iniziale si capovolge radicalmente in un momento particolare della vita di entrambi i protagonisti: la morte (v. 22). Nel mondo futuro le rispettive parti si scambiano: il ricco diventa povero e il povero ricco. La distinzione che viene segnalata tra gli «inferi» («Ade»: v. 23) e il «paradiso» («seno di Abramo»: v. 22) conferma la nuova situazione. Alla morte del povero si muovono gli angeli per condurlo nel luogo della suprema felicità, chiamato biblicamente seno di Abramo (cfr. 19, 9). Mentre sulla terra sedeva davanti l’uscio della casa del ricco, in compagnia dei cani, ora si ritrova «a mensa» col capostipite del popolo eletto. Gli orientali mangiavano sdraiati su divani e l’ospite d’onore poggiava la testa sul petto del capo famiglia (cfr. Gv 13, 23). Lazzaro, prima dimenticato, se non proprio disprezzato, gode ora una posizione di favore.

Il ricco è accompagnato con pompa e solennità fin sulla tomba, ma lì finiscono le sue feste e i suoi godimenti. Nel risveglio dell’altra vita la sua sorte è capovolta, da signore diventa mendicante e per di più le sue richieste rimangono inascoltate, come erano rimaste inascoltate quelle di Lazzaro (vv. 23-24). Egli che mangiava e beveva a piacimento, non dispone neanche di una goccia d’acqua per inumidirsi le labbra e la lingua. Al posto dei vari piaceri di cui era ricolma la sua vita ha il cruccio di un fuoco che lo divora senza ucciderlo. Il discorso è evidentemente simbolico. Il «fuoco» non è una realtà fisica, ma esprime la severa punizione a cui è andato soggetto l’uomo ingiusto.

La risposta di Abramo (v. 25) contiene la chiave di tutto il «racconto», la spiegazione del tragico destino a cui è andato incontro quasi inconsciamente il ricco. «Tu hai ricevuto i tuoi beni nella tua vita e Lazzaro i suoi mali». I «beni» sono stati per lui occasione di rovina, come per Lazzaro i «mali» sono stati motivo di salvezza. Non è che il ricco non abbia forse in teoria riconosciuto Dio e la sua legge, o che l’abbia negato apertamente. L’autore non vuol far pensare che sia stato un ateo dichiarato, solo che non ha fatto molto conto della sua fede, non gli ha dato molto posto nella vita pratica. L’unica sua preoccupazione era concentrata su se stesso, sul suo lusso e sui suoi divertimenti, e per ciò aveva lasciato da parte Dio e la sua legge soprattutto quella dell’attenzione, del rispetto ai propri simili. In fondo la parabola può essere considerata un’illustrazione della servitù che si instaura verso mammona (cfr. v. 13). Per chi lo onora fedelmente egli diventa anche senza volerlo o senza avvertirlo il proprio dio, oggetto di un adeguato culto. La ricchezza che è sempre un dono di Dio all’uomo, è in queste circostanze un male. Essa viene idolatrata ed è, per questo motivo, aberrante. Al contrario la povertà è un bene, perché tiene libero l’animo dal male, cioè dall’egoismo, dai piaceri distrattivi della terra.

Il finale della parabola è spietato, crudele come il suo inizio (vv. 26-31). La sorte del ricco e di Lazzaro è segnata in maniera inesorabile e irreversibile. Tra i due e il loro rispettivo mondo c’è un baratro più grande di quello che li ha tenuti divisi in vita. Il «grande abisso» è invalicabile, si direbbe eterno, ma è un’affermazione che non è il caso di sottolineare. L’intento della parabola è parenetico, non teologico. Il racconto stigmatizza un comportamento, fustiga una classe sociale e invita a riscoprirne e ricuperarne un’altra dimenticata e calpestata, non intende risolvere i problemi dell’al di là che rimangono all’uomo di questo mondo sempre imperscrutabili. Gli basti sapere qual è l’opera che a Dio piace e che egli è tenuto a compiere per avere una felice sorte nel mondo futuro. Il bene come il male ha ripercussioni ultraterrene, ma come e in quale proporzione nessuno lo sa, né forse il parabolista ha inteso rivelarlo. Se l’ha fatto, ha seguito una sua logica umana non quella di Dio. La lezione della parabola, se presa alla lettera, lascia più ambiguità di quante ne risolva. La presentazione di Dio non è certamente ideale. Egli non sembra aver la forza, la capacità di perdonare un ricco pentito. Nella sua durezza, impassibilità c’è forse ritratta l’ostilità dell’evangelista verso la classe abbiente (cfr. 6, 20-28), o ci sono sottolineate le sue preoccupazioni pastorali. È di per sé arduo attribuire a Dio un comportamento così severo, quasi vendicativo, verso certi peccatori. Forse questi aspetti non sono quelli da calcare, ciò che è condannato è l’abuso della ricchezza e il pericolo che essa costituisce: atrofizza il cuore, uccide i rapporti con i propri simili. Solo che l’anima del ricco può ritrovarsi in tutti, anche nel povero.

La soluzione che l’autore offre alla questione sociale è sempre commescolata da motivazioni religiose e da prospettive ultramondane che la rendono ambigua, dubbia. Le sperequazioni che si riscontrano nella storia scompariranno definitivamente nel secolo futuro, come ricorda anche altrove l’evangelista (cfr. 6,20-28), ma è un tradimento del messaggio evangelico. Gesù ha lottato ed è morto per formare di tutti gli uomini una famiglia di amici, di eguali, di fratelli, fin da questa terra. E finché la storia sarà ingombrata da figure come quella dell’epulone, Lazzaro non verrà fuori dalla sua condizione di subordinazione e di miseria. Occorre credere in tempo alla parola dei profeti che presentano Dio «amico dei poveri».

La supplica del ricco epulone verso Abramo a favore dei propri congiunti serve a mettere in luce la portata della predicazione profetica nella storia della salvezza e della Chiesa. L’epulone fa appello a interventi straordinari, alla visita di un defunto presso i familiari, ma Abramo non è dello stesso parere. Per chi ha debite disposizioni il semplice annunzio profetico è sufficiente per credere; per chi manca di tali disposizioni qualsiasi argomentazione o prova è inconcludente. L’uomo di poca fede fa appello ai grandi segni che poi lo lasceranno egualmente indisturbato. I farisei hanno chiesto un segno dal cielo, Gesù non l’ha loro concesso (11, 16), ma anche se li avesse assecondati non si sarebbero egualmente convertiti. I problemi di fede si risolvono all’interno dell’uomo, nella sua generosità, disponibilità, coraggio. La poca fede fa leva sullo spettacolo; la vera fede si cala nei segreti delle coscienze.

La metodologia pastorale che Luca propugna con queste battute è contraria alla grandiosità dei mezzi di evangelizzazione; invece fa leva sull’ascolto della parola (v. 31). Il vangelo dell’infanzia presenta Maria attenta alle parole che le venivano rivolte dai vari inviati divini, meditandole e riflettendovi sopra (cfr. 2, 19.51). Anche la sorella di Lazzaro è un’ascoltatrice attenta di Gesù (cfr. 10, 38). La parabola piena di conforto per i poveri si chiude con una nota di pessimismo nei confronti dei ricchi, ma forse l’evangelista si è lasciato prendere la mano.

(Ortensio da Spinetoli, Luca, Assisi 1994)

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Don Gallo

Coi tassisti ho un bel rapporto, forse perché tra loro si è sparsa la voce che lascio la mancia. Una notte tornavo dalla visita a una famiglia in difficoltà e a fine corsa chiesi al conducente quanto gli dove­vo. Mi rispose: «Mi può confessare?». Lo confessai in macchina e non mi fece pagare. Me ne capitano… Un’anziana prostituta dei carruggi mi chiese l’as­soluzione perché la dava gratis ai barboni.

(Don Andrea Gallo, Così in terra, come in cielo)

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[1] Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. [2] I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro». [3] Allora egli disse loro questa parabola:

«Un uomo aveva due figli. [12] Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. [13] Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. [14] Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. [15] Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. [16] Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. [17] Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! [18] Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; [19] non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. [20] Partì e si incamminò verso suo padre.
Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. [21] Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. [22] Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. [23] Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, [24] perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
[25] Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; [26] chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. [27] Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. [28] Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. [29] Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. [30] Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. [31] Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; [32] ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

Questa volta, il commento al brano evangelico della domenica (la celeberrima parabola “del figliol prodigo”) lo voglio lasciare al testo di questa canzone. Del Teatro degli orrori, Direzioni diverse.

Ti prego ascoltami
ascoltami bene almeno una volta
solo poche parole
sarebbe stato bello invecchiare insieme
la vita ci spinge verso
DIREZIONI DIVERSE
ti prego ascoltami, ascoltami bene
almeno una volta
è un mondo diverso che voglio
altro che storie
senza né despoti né preti
più giusto e libero se vuoi
dove abbracciare
il sole il mare la terra l’amore
quanto ti manca l’amore?
sarebbe stato bello invecchiare insieme
la vita ci spinge verso direzioni diverse
non te la prendere
non te la prendere, almeno una volta
il lavoro mi rincorre, adesso devo scappare
ti prego ascoltami
ascoltami bene, almeno una volta
solo poche parole
sarebbe stato bello invecchiare insieme
la vita ci spinge verso direzioni diverse.

Il video: 

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Circa otto giorni dopo questi discorsi, [Gesù] prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. [29] E, mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. [30] Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia, [31] apparsi nella loro gloria, e parlavano della suo esodo che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme. [32] Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. [33] Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli non sapeva quel che diceva. [34] Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all’entrare in quella nube, ebbero paura. [35] E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo». [36] Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

Il racconto della Trasfigurazione secondo Luca sorprendentemente mi sembra stimoli più l’udito che la vista (come si potrebbe invece immaginare); mi pare che affascini più l’orecchio che l’occhio.

È tutta un parlare, la Trasfigurazione lucana: è il parlare di Gesù (la Parola) con il Padre nella preghiera e con i suoi due interlocutori Antichi; è il parlare del Padre (la Nube) che invita i discepoli all’ascolto; è il parlare di Pietro che vorrebbe trattenere il momento in una tenda “costruita da mani d’uomo” (e quindi strutturalmente incapace a contenere l’Incontenibile). Un parlare.

Che (ancor più sorprendentemente) si conclude con il silenzio (v. 36)!

Sì, perché la Trasfigurazione è evento che non può essere raccontato; il parlare divino vuol essere narrato solo con timidi balbettii e l’esperienza della nube soffice e luminosa può essere soltanto vissuta dal vivo.

La Trasfigurzione finisce in silenzio, perché… è solo un momento passaggero. Fra pochi giorni il Trasigurato diverrà lo Sfigurato (Is 52); l’esaltazione che il Figlio conoscerà sarà solo quella della Croce (Gv 8); ma di certo il suo messaggio rimane: quel divino parlare che oggi come allora chiama all’ascolto calmo e profondo… come un suono che colpisce lo sguardo, come una luce che invade l’orecchio: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo»!

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(39) In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. (40) Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. (41) Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo (42) ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! (43) A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? (44) Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. (45) E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore».

«Maria raggiunse in fretta una città di Giuda».

L’annuncio della gioia non può attendere. La lieta notizia che Dio si è scelto un grembo ha fretta di percorrere le strade distratte dell’uomo, ha fretta di propagarsi come un fuoco, come un incendio, come quelle fiammelle dello Spirito che non conoscono confine e che invadono, scaldano, muovono alla danza, fanno scaturire la benedizione («Elisabetta fu piena di Spirito ed esclamò: Benedetta!»).

Un grembo! Sì: Dio si è scelto un grembo in cui nascere, in cui farsi lentamente carne. Dio ha scelto un grembo di donna per benedire tutta l’umanità nella donna! Pare di riascoltare qui il grido gioioso di Adamo che alla vista di Eva esclama: «Finalmente!» (Gen 2, 23).

Finalmente, o Dio, hai scelto di benedire la tua creazione! Finalmente hai scelto di mostrarti come grembo di madre. Finalmente hai deciso di cancellare la maledizione dell’Eden e di trasformarla in gioia benedicente.

Finalmente, o Dio! Il tempo si è fatto breve… e Colui che deve venire verrà!

Sì: io lo so, io lo credo.

Benedetta sei tu, Maria. Benedetto sei tu, o Cristo.

Benedetta sei tu, Donna.

E in te: benedetto il mondo intero!

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